courtesy julianne.hide |
Mi ricordo il giorno in cui salii le scale di casa sua per la prima volta, rampa dopo rampa, e già al terzo piano mi mancava il fiato.
Chissà come ci arrivava lei, al quinto piano, a più di ottant’anni….
Lo capii poco a poco, conoscendola durante i nostri incontri pomeridiani.
[...]
Sentii dei passi frettolosi e la Signora Agnese venne ad aprirmi: vidi una donna piccola e magra, molto trascurata, che mi guardò negli occhi con stanchezza e diffidenza. La salutai con un sorriso porgendole un pacchettino di paste, e fu così che riuscii ad entrare.
Davanti alle paste alla crema e ai budini al cioccolato cominciava sempre a sorridere anche lei e a raccontarmi che da bambina era golosa di dolci, anche se in verità lei e i suoi cinque fratelli avevano avuto tanta fame, la fame vera che le famiglie contadine avevano sofferto sul delta del Po negli anni ’20. Fame e povertà avevano accompagnato la signora Agnese anche durante la guerra a Milano, dov’era venuta, ragazza, per imparare il mestiere di sarta. Mi raccontava dei bombardamenti, delle corse nei rifugi in cantina, di come cucisse bene le gonne a pieghe e le camicette di seta e poi di quel bel ragazzo con cui aveva parlato due volte ma che non era più tornato dal fronte.
Ogni volta mi chiedeva che paste le avessi portato perché non ci vedeva più granché, ma “farsi gli occhiali” – come diceva lei – “costa troppo”. E costava troppo pure il dentista, per cui “la dentiera mi balla e la metto solo quando esco e poi mangio caffelatte e stracchino”. Peccato che nel vassoio del pasto che il Comune le mandava ogni giorno ci fossero troppo spesso bocconi di carne e pastasciutta che non riusciva a masticare.
Poi cominciava sempre a ripetermi che da trent’anni, ormai, viveva da sola in quella casa. Da sola perché la sorella con cui era venuta a Milano era morta giovane e lei non aveva mai fatto amicizia con nessun vicino perché “sono tutti ficcanaso e non ci si può fidare di nessuno”.
Stavamo sedute a parlare davanti ad un tavolo rotondo, in una stanza dai muri scrostati, con alcuni fili elettrici volanti. Da una parte c’era un vecchio mobile con una vetrina da cui si vedevano tazzine spaiate piene di polvere, un vecchio carillon con una ballerina sul coperchio, una Madonnina di legno e un acquerello sbiadito con una barca sul mare. Tutto sapeva di stantio. In un angolo c’era pure una specie di mobiletto-frigo pieno di cibi e scatolame scaduti. Il frigo non funzionava nemmeno più e la signora Agnese non se n’era accorta perché non ci vedeva più bene e la sua vita era immobile da decenni. Immobile come quel piccolo appartamento in cui viveva, con una cucina nell’incavo di una parete, un fornello con la bombola del gas e un lavandino di ceramica ingrigita e piena di crepe, con un bagno che conteneva solo il water e un minuscolo lavandino senz’acqua calda.
Lì dentro il tempo si era fermato da anni, come si era fermato nel cuore della signora Agnese. Non sognava neppure più una vita diversa, perché si era dimenticata che potesse esistere. Si era rinchiusa in una solitudine da cui uscivano soltanto ricordi di privazioni, delusioni e, soprattutto, rancori che l’avevano ripiegata su se stessa. Eppure l’avevo vista sorridere bevendo il tè e mangiando le paste alla crema, mentre mi raccontava i sogni che aveva da ragazza e che ora non aveva più.
Col tempo si riuscì a farle accettare un piccolo frigorifero e un televisore, ma non si riuscì mai a farle accettare la proposta di andare a vivere in una residenza per anziani.
La signora Agnese continuò a fare i cinque piani di scale a piedi fino al giorno in cui rientrò nella sua casa per l’ultima volta, perché se ne andò nel sonno come mi aveva sempre detto di desiderare. E fui felice che almeno per una volta si fosse realizzato un suo sogno.
Aurora P.
Davanti alle paste alla crema e ai budini al cioccolato cominciava sempre a sorridere anche lei e a raccontarmi che da bambina era golosa di dolci, anche se in verità lei e i suoi cinque fratelli avevano avuto tanta fame, la fame vera che le famiglie contadine avevano sofferto sul delta del Po negli anni ’20. Fame e povertà avevano accompagnato la signora Agnese anche durante la guerra a Milano, dov’era venuta, ragazza, per imparare il mestiere di sarta. Mi raccontava dei bombardamenti, delle corse nei rifugi in cantina, di come cucisse bene le gonne a pieghe e le camicette di seta e poi di quel bel ragazzo con cui aveva parlato due volte ma che non era più tornato dal fronte.
Ogni volta mi chiedeva che paste le avessi portato perché non ci vedeva più granché, ma “farsi gli occhiali” – come diceva lei – “costa troppo”. E costava troppo pure il dentista, per cui “la dentiera mi balla e la metto solo quando esco e poi mangio caffelatte e stracchino”. Peccato che nel vassoio del pasto che il Comune le mandava ogni giorno ci fossero troppo spesso bocconi di carne e pastasciutta che non riusciva a masticare.
Poi cominciava sempre a ripetermi che da trent’anni, ormai, viveva da sola in quella casa. Da sola perché la sorella con cui era venuta a Milano era morta giovane e lei non aveva mai fatto amicizia con nessun vicino perché “sono tutti ficcanaso e non ci si può fidare di nessuno”.
Stavamo sedute a parlare davanti ad un tavolo rotondo, in una stanza dai muri scrostati, con alcuni fili elettrici volanti. Da una parte c’era un vecchio mobile con una vetrina da cui si vedevano tazzine spaiate piene di polvere, un vecchio carillon con una ballerina sul coperchio, una Madonnina di legno e un acquerello sbiadito con una barca sul mare. Tutto sapeva di stantio. In un angolo c’era pure una specie di mobiletto-frigo pieno di cibi e scatolame scaduti. Il frigo non funzionava nemmeno più e la signora Agnese non se n’era accorta perché non ci vedeva più bene e la sua vita era immobile da decenni. Immobile come quel piccolo appartamento in cui viveva, con una cucina nell’incavo di una parete, un fornello con la bombola del gas e un lavandino di ceramica ingrigita e piena di crepe, con un bagno che conteneva solo il water e un minuscolo lavandino senz’acqua calda.
Lì dentro il tempo si era fermato da anni, come si era fermato nel cuore della signora Agnese. Non sognava neppure più una vita diversa, perché si era dimenticata che potesse esistere. Si era rinchiusa in una solitudine da cui uscivano soltanto ricordi di privazioni, delusioni e, soprattutto, rancori che l’avevano ripiegata su se stessa. Eppure l’avevo vista sorridere bevendo il tè e mangiando le paste alla crema, mentre mi raccontava i sogni che aveva da ragazza e che ora non aveva più.
Col tempo si riuscì a farle accettare un piccolo frigorifero e un televisore, ma non si riuscì mai a farle accettare la proposta di andare a vivere in una residenza per anziani.
La signora Agnese continuò a fare i cinque piani di scale a piedi fino al giorno in cui rientrò nella sua casa per l’ultima volta, perché se ne andò nel sonno come mi aveva sempre detto di desiderare. E fui felice che almeno per una volta si fosse realizzato un suo sogno.
Aurora P.
8 commenti:
Ciao Aurora, non ho faticato ad immaginarmi li', leggendo il tuo racconto, sembrava anche a me di essere in quella stanza. Sembrava anche a me di essere un volontario che viene accolto nel mondo ovattato e fuori dal tempo di chi ha capito che il tempo sta finendo. Sembrava anche a me di essere un anziano che ha smesso di sognare e rimane aggrappato alla vita con il terrore che ogni minimo cambiamento possa comprometterne il delicatissimo equilibrio.
Accogliere un volontario, anche questo è cambiamento, è rimettersi in gioco, è accettare di raccontarsi e di essere, di nuovo, vivi.
Sono bellissime esperienze che abbiamo la fortuna di poter toccare con delicatezza e, come chiedendo il permesso di entrare, in punta di piedi, in queste vite cristallizzate, piene di stanchezza e di paura.
Grazie per averci dato, attraverso questa immagine, un nuovo spunto di riflessione.
Sugli altri e su noi stessi.
E su quanto sia semplice, in fondo, alleviare la solitudine in vite dimenticate... a volte anche da chi le sta vivendo.
Cara Aurora, sei entrata in quella casa portando l'aurora a quella vecchietta negli ultimi anni della sua vita sempre povera ma dignitosa.
Belle esperienze che lasciano certamente un segno.
Un abbraccio.
Hai saputo descrivere in modo delicato ed affettuoso l'epilogo d questa vita piena di amarezze. Ma anche di qualche raggio di sole grazie al tuo ascolto e a qualche pasta alla crema.
Un racconto delicato ed emozionante per una di quelle vite che dovrebbe assurgere ad esempio per molti.
Esperienze uniche come unici siamo ognuno di noi..
Gio'
http://remenberphoto.blogspot.com/
Sono passata di fretta,leggerò con calma il tuo post (l'ho stampato :)..ciao buona giornata
un sorriso per augurarti una giornata serena :)
Gio'
http://remenberphoto.blogspot.com/
ciao
racconto molto emozionante.
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